Raccontano i giornali che un usciere del ministero della Pubblica istruzione fu arrestato perché aveva preso l’abitudine di far sparire dai tavoli degli impiegati le pratiche voluminose, per venderle come carta straccia e ricavarne qualche guadagno in questi tempi di caro-viveri e di carissima carta.
Naturalmente egli avrà il destino di tutti i geni i compresi: sarà processato, condannato e perderà il posto. Eppure se la giustizia fosse, almeno essa, meno burocratizzata e meno fossile, quell’ignoto dovrebbe essere assolto ed esaltato. Perché lui, mentre da anni imperversano i lamenti contro la burocrazia, mentre si succedono studi e commissioni per la riforma delle amministrazioni pubbliche, mentre ogni ministro, che voglia passare per modernista e scroccare qualche approvazione alla stampa e alla pubblica opinione, si affretta a iniziare il suo governo con la solenne promessa di sburocratizzare, lasciandosi poi inevitabilmente travolgere dalla consuetudine, dagli ingranaggi della mastodontica e inesorabile macchina, lui solo, quell’umilissimo travet, ha additato il modo sicuro, rapido, di liberarsi delle montagne di carta sotto cui gli uomini del secolo XIX gemono oppressi, invano mutando fianco per trovare requie.
Pensate quale liberazione se un rogo gigantesco divorasse le pratiche che sono ammucchiate su migliaia e migliaia di tavoli e scaffali, e come felici ballerebbero intorno a esso la danza dell’emancipazione migliaia di travet, carnefici e vittime insieme. Poiché veramente più disgraziati dei disgraziati, cui tocca aver da fare con le amministrazioni pubbliche, sono quelli che la pratica devono emarginare, trattare, gonfiare. Essere costretti a un lavoro che si sa perfettamente inutile per il novanta per cento, a scrivere delle lettere che si sa non essere prese sul serio dai destinatari uffici competenti, a chiedere con delle domande stereotipate delle risposte che si conoscono già parola per parola, e tutto solo perché la pratica deve essere istruita, perché il capo divisione, il capo sezione, il capo ufficio, il sotto capo ufficio, il capo gruppo potrebbe piagare qualche grana se, per avventura, si accorgessero chi non ha scrupolosamente rispettata la circolare 12501 del 1898, e l’ordine di servizio, ecc…, e durare in questa fatica idiota e idiotizzante tutta la vita è un supplizio che Dante poteva infliggere a chi aveva ammazzato suo padre! E non c’è niente da fare. Inutile ogni ribellione; bisogna piegarsi e ubbidire, e tacere anche se un capo ufficio dedica la sua giornata a dividere la corrispondenza e a prepararla in varie cartelle per le varie firme dei vari superiori, preoccupato se erano state adoperate secondo le buone norme le formule sacramentali “con stima” o “con osservanza”, preoccupato di non sbagliare a mettere i timbri, sotto cui i superiori firmeranno; anche se un pezzo grosso perde il suo tempo, che pure i cittadini pagano bene, a correggere una lettera sostituendo frase a frase, parola a parola, tanto per dimostrare forse che lui sa scrivere, anche se ad allietare le lunghe, noiose ore d’ufficio c’è un collega a raccontare la storia del timbro… non sapete la storia del timbro?
C’era una volta un capo di un importante ufficio di una grande azienda statale. Avvenne che fu promosso di grado, e destinato ad altra sede. Mentre si svolgeva il movimento di gros-bonnets nel quale egli era stato compreso, dovette rimanere ancora un paio di mesi nel vecchio ufficio. Ma egli ava già avuto il nuovo grado, e vi pare quindi che potesse continuare ad accontentarsi del vecchio titolo? Ohibò, e la dignità, e l’autorità? Allora egli fece fare una cinquantina di timbri nuovi, e distribuire agli uffici dipendenti affinché su tutte le lettere si stampasse non più: “il capo divisione”, ma: “il capo compartimento di I grado reggente la divisione”. Naturalmente, giunto il successore, i nuovi timbri furono gettati via e si ritornò ai vecchi, ma frattanto lo Stato aveva speso qualche centinaio di lire!
E voi sperate ancora in un rinnovamento della burocrazia? Non c’è il fuoco, il rogo, la rivoluzione… e chi sa ancora!?
Antonio Gramsci, 3 aprile 1918
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